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Testimonianze Critiche

 

…Saverio Ungheri tra cent’anni non chiuderà gli occhi, ma li aprirà ancora di più. Dio non è per lui il triangolo della Trinità cristiana o il doppio triangolo di Mosè. E’ un cilindro. Senza fondo...

Presentazione mostra "Flegias" 1976". GIUSEPPE SELVAGGI

 

 

…interessante la manipolazione pittorica, nella quale si producono stacchi finissimi sottili di segni graffiti mediante i quali l’immagine viene ad essere quasi fantomaticamente determinata, come nella fatica di una lunga memoria, avvalorata dalle spartizioni sulle superfici che accentuano visivamente il distacco. Un complesso sustrato letterario-psicologico-parascientifico è nelle opere di Ungheri....

"Il Popolo" 20 Aprile 1977 (Dipinti pre-manieristi anni 75)  SANDRA ORIENTI

 

 

….i suoi lavori hanno tanto peso di realtà e travalicano il senso del mero valore estetico……egli fa dell’arte lo strumento, affascinante ed orrendo, della nostra dannazione quotidiana e, insieme della più disperata speranza metafisica....

Presentazione mostra "Palazzo dei Diamanti", Ferrara 1982. FRANCO SOLMI

 

 

...Ungheri ha elaborato una personale visione della citazione, tesa a ricercare, in quanto ci ha preceduti, i valori ideali quasi staccati da una precisa determinazione storica: il suo intento non è voler ricordare un tempo trascorso e irripetibile, quanto affermare, senza clamori, la silenziosa e pacata continuità dei ritmi naturali.

23 Novembre 1991. SERGIO GUARINO

 

 

con tutto quel bagaglio di doverosi di riconoscimenti che tutto ciò porta dietro, quando si tratti di chi è capace di mettere in moto i meccanismi della demistificazione, la dove altri usano esercitarsi a vuoto.

"Paese Sera" 18 Ottobre 1970. DUILIO MOROSINI

 

 

...Esperienze surreali, pop e cinetiche, hanno infatti il sapore ed il limite di una ricerca un po’ maniacale, sino quasi ai confini dell’Art-Brut……..

"Momento sera" 31 Ottobre 1970 .LORENZA TRUCCHI

 

 

.....Per salvare l’unica, l’ultima sostanza, che è il meccanismo, la superficie motoria, i suoi recitativi, i suoi lampaneggi…..Diciamo dunque questa "scultura" una comparizione sufficientemente radicale per raffigurare il corpo (corpus, quindi) come forma di una divinità, o del dio non ancora nato, schiavo integrale del caos fecondante: nicchie del palpito informe e omniverso, cavo della dimensione fluida (non eraclitea),…… Presentazione mostra alla galleria "L’Obelisco" 1973 EMILIO VILLA

 

 

….Saverio Ungheri, scultore che sa leggere le ansietà e le speranze dell’uomo moderno

(Dedica su libro) Mons. GIOVANNI FALLANI

 

 

...La mia opinione sul computer? – scriveva Tinguely una decina di anni fa – E’ il filosofo della macchina o la filosofia della macchina. Ne ho seguito il perfezionamento in questi anni, penso che il modo com’è impostato contiene tutte le premesse necessarie per un "neo-rinascimento". Ma io non ci lavoro. "Ci ha lavorato Saverio Ungheri, da maestro di tecnica, oltre che di "op-art". La mostra che si apre al "Polmone Pulsante" è un’ulteriore battuta nel tentativo, perseguito da decenni, di sviluppare l’esperienza dei "kinetic sculptores" attraverso allusioni, richiami, costruzioni mitografiche, che sono segnali più complessi e interpretabili nella loro forma di espansione del simbolo. Così il computer di Ungheri contiene tutti i caratteri del mutamento psicologico di questa macchina pensante che, ormai istituzionalizzata ed al limite della massima evoluzione, si avvia perciò stesso all’usura. Nel computer di Ungheri persistono gli antichi elementi: luce, suono, movimento. Ma sono impacchettati in una grande scatola ch’è l’impaccaggio ideale dei prodotti di grande consumo. Una riduzione insomma, che blocca a un senso di archeologia sia l’egocentrismo ironico di Tinguely che la concezione sociale dell’arte di Schoffer. Le stesse variazioni si avvertono nell’impressionante scultura "Il combattente", che introduce alla mostra. Anch’esso scatola, dotata di forme anatomiche comprensibili, ma il cui assemblaggio, più che creare illusioni, carica l’oggetto di feticismo e d’idolatria, con l’implicito disconoscimento delle rivalità e delle lotte che contaminano i rapporti di società. C’è infine l’uovo, mobile o pendulo, anch’esso impacchettato in quattro campi e sottoposto a differenti tipi d’illuminazione e di movimento. Anche in queste opere l’ambiguità del linguaggio e il loro ermetismo scaturiscono dalla misteriosa tendenza al simbolo dello scultore. E, in ogni caso, tendono a "una nuova arte cinetica" che, nel significato, non ha nulla a che vedere con quella del passato.

ENZO NASSO

 

 

[…] nella circostanza della nascita dell’Astralismo, un movimento d’arte che avrebbe inteso mettersi al passo con la conquista degli spazi a opera della scienza, e da cui il nostro deriverebbe adesso un suo “realismo lunare”, come ultimo stadio di una evoluzione che partendo dal figurativo tradizionale passa per un periodo in cui l’espressione pittorica , assai vicina a significati di simbolo, riusciva a sfuggire, pur nella purezza quasi calligrafica delle immagini, il pericolo di una loro manierata perfezione.

Fu il periodo delle figure con le calve teste ovali, a mezza strada su una pittura d’intenzione metafisica, tanto che, svuotati in esse gli occhi e la bocca socchiusa dal riflesso di una loro stupita interiorizzata vicenda, il riferimento più prossimo andrebbe un De Chirico del ’15. Era a suo modo già un tentativo, realizzato sulla figura umana, di superamento d’ogni realtà convenzionale. L’espressione trasognata, più che un risultato sulla tela, diventava la spia a uno sforzo dell’autore, cui l’Astralismo avrebbe come aperto una finestra su irrivelati paesaggi lunari […].                                                       

                                                                                                “Il Tempo”, 18 dicembre 1962. ANTONIO ALTOMONTE

                                                                                

        

Il polittico del professor Ungheri nella cappella dell’Istituto “Figli d’Italia” di Cassino. 

Non si può fare arte sacra se non se ne considera la destinazione: se non si calcola il valore di suggestione e di esempio che essa deve per forza contenere. E l’arte sacra ha i suoi modelli immutabili che l’artista può rendere attraverso una infinità varietà d’immagini ma che, nella loro sostanza figurativa, si adeguano all’idea della tradizione.

I tentativi di rappresentare il sacro con il metodo delle più recenti ricerche formali, seppure varie volte riproposte e discusse, hanno trovato una certa accoglienza solo nell’ architettura: per il resto è risultato chiaro quanto fosse inutile la ragione degli esperimenti, poiché esiste una verità (quella della figura umana) che sta alla base della rappresentazione sacra, dove il sentimento, più che la tecnica, deve far da guida alla sensibilità del pittore.

Saverio Ungheri ha fatto certamente queste considerazioni nell’eseguire i grandi pannelli per l a Chiesa del Collegio “Padre Minozzi” di Cassino e il risultato è considerevole quando si pensa ch’egli  ha totalmente rinunciato a certe sue esperienze di linguaggio che s’incanalavano verso la rottura dei consueti moduli formali, a favore di un’autentica e più spirituale chiarezza.

Si tratta di composizioni di grande impegno, non solo per i temi da svolgere ch’erano da affrontare con spirito di devozione, ma anche per il grande spazio da riempire: e lo spazio, in un tal genere di lavoro, esige un grande gusto del colore e dell’immaginazione.

Ungheri ha saputo affrontare le grandi tele con forza : si capisce che era cosciente dell’idea narrativa e che, anzi, l’aveva a lungo meditata, sicché ha potuto svolgerla – in particolare nei due grandi pannelli dei Bambini con Angeli Custodi – senza niente sottrarre al racconto del suo clima lirico, della sua ingenua , tenera allegoria.

Le figure, comunque, si reggono su un insolito equilibrio, attraverso un disegno nervoso che le fa esili e rapite. Si avverte la verità delle loro immagini; ma s’ avverte pure, negli atteggiamenti, negli sguardi, nei raccordi del gruppo, un desiderio sottile di astrazione.

Nella figura centrale di Cristo che benedice, la natura umana e la natura divina si fondono in una immagine forte, serenamente e virilmente sacre: e anche nella compiutezza del gesto (il Cristo che abbraccia il mondo) l’idea rappresentativa si attua in una forma ricca e matura.

A lato del pannello centrale, stanno in contemplazione san Giovanni Evangelista e san Giovanni Battista: il primo ai piedi della Croce, alla cui base l’ aquila e i testi sacri fanno da simbolo; il secondo, con l’Agnello di Dio alla base, offre l’acqua , con cui benedice, a Dio.

Le due figure son riprese quindi nella loro essenza di allegorie e di gesti, risolte in primo piano, senza altra concezione allo sfondo, affinché siano avvertibili subito, non solo all’occhio, ma soprattutto allo spirito dei fedeli.

Con queste composizioni Ungheri, dunque, riprende i temi della verità della figura, spesso trascurati nel mondo dell’arte contemporanea e ce li restituisce con la sincerità dell’ artista il quale ( pur non rinunciando nel disegno, nei tagli di luce e nei piani, a soluzioni formali di stile moderno) non intende tradire quelle ansie e quelle ambizioni figurative che sono i fondamento di tutta l’ arte sacra.

                                                                                                                             “Evangelizzare”, Febbraio 1964. ENZO NASSO

                                                                                       

 

Nell’ odierno panorama dell’ arte oggettuale, la ricerca di Saverio Ungheri si pone in quella zona che sta tra l’opera d’arte fine a se stessa e l’oggetto industriale di largo consumo.

Le sue “macchine”, infatti, hanno la duplice funzione di saturare un discorso artistico e nel contempo di soddisfare una precisa funzionalità. In altri termini, gli “oggetti” di Ungheri propongono un discorso artistico ma anche una caratterizzazione ambientale.

Oltre a questo primario aspetto si deve rilevare la vena sarcastica-surreale che è insita in essi. Poiché ritengo che questa sia la chiave di lettura dell’ opera di Ungheri. Quella stessa chiave che Breton in Le surrealisme et la peinture, a proposito dei collage di Max Ernst cosi descriveva: “L’oggetto esterno si era staccato dal suo campo abituale, le sue parti costruttive si erano, per cosi dire, emarginate da lui, così da stabilire, con altri elementi, rapporti completamente nuovi, che sfuggivano al principio di realtà e pure non erano meno veri sul piano del reale…”.

Ebbene, per Ungheri la visione di Breton gli si taglia addosso. Anche per lui l’ operazione di individuazione e di selezione della irrealtà si attua, non soltanto, ma di nuovo ricreata esse non appare meno vera del reale.

Al proposito cito il cuore (anche se dovrei dire i cuori perche le macchine sono più di una).

Nel cuore, dicevo, la finzione ha superato la realtà e il pulsare elettrico crea perfettamente l’impressione del battito cardiaco. Ma l’analogia sarebbe poca cosa se non servisse a far saltare le cesure e dare all’ operazione una carica parossitica-fantastica.

Ne risulta che il “cuore” di Ungheri è più reale e più ossessivo dei vari organi recisi e riappiccicati dalla fantascienza medica. Per usare un’espressione sportiva, si dovrebbe dire che Ungheri ha surclassato Bernard, poiché ha isolato un organo riattivandolo e ristrutturandolo secondo le moderne esigenze.

Il cuore è diventato un “cuorone”, un supercuore che si staglia sulla parete del soggiorno o rischiara l’angolo del salotto buono. La funzione dissacratrice dell’arte ha avuto, ancora una volta, la meglio. E con la sua irrisione ha trasformato la tragedia in commedia o in farsa come meglio si vuole e si crede.

E questa carica irrisoria si denota in tutta l’opera di Ungheri. Lo stesso discorso si potrebbe cosi fare per l’occhio o per quel magico pesce che con bagliori intermittenti ruota, si dimena, si articola, vibra in un ansimare che sta tra il sussulto dell’animale e quello meccanico di un cervello elettronico spossato.

Vanamente si vorrebbe trovare nell’arte un aggancio alla realtà. Succede, viceversa, che è proprio l’irrealtà dell’arte ciò che fa da contraltare alla realtà quotidiana, anzi è proprio essa quella che sa cogliere l’aspetto autentico della vita, sa far osservare una verità non altrimenti individuata.

Ebbene, Ungheri si sforza di denotare questa nuova verità.

                                                                                    Presentazione  della Mostra nella Galleria Ciak di Roma, 1968. PIERLUIGI ALBERTONI

                                                 

 

Il pittore Saverio Ungheri è un ricercatore. Per alcuni artisti l’invenzione nasce come sorgente spontanea del proprio lavoro, per altri – e sono i privilegiati, che uniscono in se stessi la felicità di produrre arte e il dolore di pensarla – la loro invenzione è l’anello conclusivo di una vita magari tutta esaurita nel cercare l’uovo d’oro della propria esistenza d’artista. Chi preferire? Il getto spontaneo (di una spontaneità certamente assai relativa) e sereno in appartenenza, o questo cammino del ricercatore dietro formule e soluzioni che sembrano essere ogni volta definitive, e non lo sono, dinanzi alla sua innata necessità di cercare ancora?

Ai fini della resa dell’artista, ch’è l’opera nella sua splendente individualità che annulla l’autore stesso come fosse anonima e tale potrebbe essere, non ci devono essere preferenze. Ma tutta la solidarietà e l’ansioso entusiasmo vanno per l’artista-ricercatore. Che è colui il quale prepara sempre strada e terreno per il viaggio suo degli altri,per il suo frutto e per quello degli altri, per il suo frutto e per quello degli altri. E in più ha una maggiore potenzialità di godere della sua costante catena di scoperte, e necessariamente di soffrire della delusione per l’accorgersi che la sua scoperta di ieri non è quella definitiva:su cui fermarsi ed edificare sino all’ultimo giorno.

Questo accenno a un discorso qui fatto con riferimento un apparenza a una situazione retorica, in generale, va invece inteso personale per Saverio Ungheri, che in pieno rappresenta con la sua attività l’artista-ricercatore. Ungheri appartiene ai rari pittori in cui pensiero e bellezza riescono a fondersi per una coordinata esplosione nell’opera, che ha sempre in lui i brivido della scoperta.

Dove arriverà Saverio Ungheri? L’avvenire dei ricercatori è sempre un’attesa. Si fermerà Saverio Ungheri su un punto fermo della sua ricerca per costruirvi, come si usa dire, un modo pittorico proprio con sigla definita (come tanti artisti fermi su se stessi sino a morirne da vivi, magari famosi e costosi)? Può darsi che non si fermerà, e la sua esistenza di artista sarà ancore una serie di esplosioni, tutte intense, tutte lancinanti di invenzioni. Come i suoi sassi spaziali. Come i suoi crateri. Come i suoi meccanismi cinetici. Come tutto quello che ha fatto sinora. Non per questo verrebbe meno la sua qualità di artista,perché in queste tappe-scoperte c’è come una cucitura interiore, e per l’occhio educato all’arte anche esterna, che ne garantisce l’unità ossia l’individualità.

L’opera di Saverio Ungheri ha bisogno di uno scavo critico e di letteratura,e allora si potrà documentare che la Calabria ha con questo pittore a potenzialità di un altro grande artista fra i suoi artisti, che nella maggior parte appartennero sempre nella categoria superiore dell’ invenzione. Nell’attuale occasione della mostra di Palmi, questa piccola nota è solo una testimonianza e un segno di disponibilità per questo scavo, con la convinzione della sorpresa che esso contiene.

                                                                               Presentazione della Mostra, Palmi 1969. GIUSEPPE SELVAGGI

                                                                               

 

L’opera cibernetica del maestro Saverio Ungheri è indubbiamente metafisica. L’animus ispirante è in questo caso nettamente faustiano, nel senso di una ricerca drammatica per andare oltre la facciata e le sembianze dell’universo visibile per raggiungere livelli profondi ed invisibili.

L’Artista è sul piano, per dirla platonicamente, del “demiurgo”, alla ricerca quindi di quegli elementi cosmici che possono servirgli e da cui può prendere, per comporre ed animare gli individui, gli elementi e le cose che appariranno poi individualizzate nel teatro del mondo.

L’opera ci porta nettamente in quello che Goethe chiamava “il regno delle madri” ad indicare la ricerca che anima magicamente l’uomo esistenziale alla scoperta di quelli che Jung, ripetendo il termine di sant’Agostino, chiamerà gli “archetipi”.

È necessario considerare tutto ciò avvicinando l’opera artistica di Saverio Ungheri onde orientarsi a comprendere in profondità – oltre che a sentire – gli elementi della sua opera cibernetica, che vanno, soprattutto considerati nell’insieme: le sue opere hanno la durezza talora la crudeltà,l’evidenza e la terribilità che caratterizza appunto le creature fantastiche dell’ inconscio, perché è attraverso i livelli e i molti veli dell’ inconscio che Ungheri vuole passare, nell’ interno e nell’anelito – che sono i punti centrali e profondi della sua ispirazione artistica cibernetica – di raggiungere gli archetipi dinamici e pulsanti che sono sotterranei alla manifestazione naturale cosmica.

In queste opere, che vanno considerate come un coro vivente, è presente un dramma: il dramma di chi, insoddisfatto delle apparenze e  teso a passare attraverso i sotterranei aspetti che sostengono l’opera della natura, vuole raggiungere e vuole sentire – al di là della durezza della lotta naturale dei contrasti – la voce, la luce di quello spirito la cui nostalgia è evidente in altre opere e in altre fasi della creazione artistica si Saverio Ungheri. Parlo del periodo delle opere lirico-mistiche, in cui – sempre attraverso la drammaticità e i contrasti del sentimento – si avverte il bisogno di oltrepassare i dubbi e le notti della mente in un bagno mistico che riveli quei punti salvifici così drammaticamente cercati dall’Autore. I colori, le figure del periodo mistico preannunciano già gli scoppi drammatici e faustiani che possiamo scorgere in quest’altra fase di Ungheri, il quale esprime una simbologia certamente complementare all’altro periodo.

Se voi osservate, le figure cibernetiche ci rivelano l’ispirazione biologica e zoologica e, inoltre, ci fanno assistere al problema della solitudine e della ricerca di vita di queste figure simboliche, le quali ricordano addirittura immagini di pietra medioevale e di certe cattedrali gotiche della Francia, della Germania, e che sono del periodo gotico-alchemico. Ci ricordano pure, questi animali, figurazioni di pietra dei templi A-Puri e di Jaipur nell’India.

Riappaiono, come espressione diversa, momenti di una simbologia e di una ricerca che appunto riecheggiano momenti della storia artistica simbolici e addirittura sapienziali. La nota polemica, e talora volutamente umoristica, di queste creazioni ci rivela il distacco interiore dell’artista che sente ed avverte internamente che queste opere e queste figure sono momenti di passaggio nella sua storia, che è una tormentata e ricca ricerca del superamento di questi contrasti in una vivente unità significativa che tutto oltrepassi e che tutto riveli in una essenziali intuitiva verità.

                                                                                                   1969. SERGIO BERNARDI

 

 

Occhi di plastica e metallo dalle palpebre semoventi. Pesci di materiali sintetico che respirano con branche meccaniche e luminose. Cuori gommapiuma, macroscopici e pulsanti. Queste e altre le sculture-oggetto di Saverio Ungheri.

Certo, Ungheri non è il solo a fare, in questo momento, dell’arte oggettuale in chiave grottesca. Ci sono – per non dire della casistica più tipica e vistosa – i costruttori di macchine inservibili (impotenti e folli) come Tinguely e ci sono gli allestitori di ambienti che respirano l’incongruo, come Stenvert,il “montatore” per assurdo di plastici o vetrine con oggetti e manichini.

Ma Tinguely è quell’ anarchico della forma, quel sovvertitore compiaciuto e gratuito che sappiamo, e Stenvert ( per provocatorie o pungenti che possano apparire le sue invenzioni) resta pure sempre uno scanzonato epigono del dadaismo politico degli anni venti.

Ungheri, per contro, ha tutta l’aria di dare simili esperienze per scontate: di nutrire scarsa fiducia, ecco, nell’ efficacia dissacratoria di simili interventi, di stampo nichilistico e funambolesco.

Affascinato dai modelli della tecnica cui si ispira – egli realizza, infatti, oggetti rifiniti secondo le buone regole dell’ estetica industriale (o del gusto “optical”) e affida a tale precisione il compito di simulare la loro verosimiglianza e la loro funzionalità. Anche quando fa uso dei più banali materiali di accatto (frammenti di aggeggi domestici); cui dà, con finto puntiglio, tali parvenze di qualificazione tecnica e di superiore necessità, da ingannare l’osservatore dall’occhio distratto, per quel tanto che basta, almeno a invitarlo a riflettere sulla labilità dei confini che possono separare la razionalità del prodotto dalla irrazionalità della sua destinazione sociale.

Così – per restare ai casi citati all’inizio – in quel suo tale smisurato occhio di plastica policroma, dalla metallica palpebra girevole: dove c’è la simulazione d uno dei tanti modelli da tecnica di animazione concepiti a scopi scientifico-didattici e dove è tale simulazione, appunto, ad attirare per prima l’attenzione dello spettatore, sollecitato soltanto dopo a recepire l’inutilità dell’oggetto che gli viene proposto e – ancora – i suoi tratti di grottesca interpretazione degli “exploits” della cibernetica (o dell’alta chirurgia).

Analogamente, modello (simulato) di tecnica di animazione e, nello stesso tempo, metafora della “natura snaturata” è, pure, quel tale suo pesce in materiale sintetico, dalla branchia che si apre si chiude ritmicamente, per lasciar intravedere gli illeggibili organi di gommapiuma e il sanguigno alone di luce della lampada nascosta nel contenitore che gli fa da supporto.

Sole eccezioni a tale regola ( la regola dell’insinuazione e della simulazione) sarebbero dunque – a guardar bene – le varie interpretazioni del cuore del dottor Barnard (che l’autore ci propone in questa sua mostra): per quei loro groppi di materia plastica che palpitano o ansimano come se fossero vivi, ma che, per le loro abnormi proporzioni e per l a loro grezza irrealtà dei loro congegni, sfociano subito nel buffonesco. Certo, adesso (ma solo adesso, una vota precisate queste cose) può magari essere legittimo dire che lo stesso Ungheri appartiene alla famiglia degli odierni neodadaisti. Con tutto ciò che di contingente, di provvisorio, la faccenda può implicare, agli occhi di chi accordi importanza allo spessore dei significati ed alla stessa “materiale” durata delle strutture linguistiche a cui sono affidati. Ma, anche, con tutto quel doveroso bagaglio di riconoscimenti che tutto ciò si porta dietro, quando si tratti di chi è capace di mettere in moto i meccanismi della demistificazione, là dove altri usano esercitarsi a vuoto.

                                                                                      “Paese Sera”, 18 ottobre 1970. DUILIO MOROSINI

                                                                                          

                               

L’atteggiamento creativo di Saverio Ungheri, notoriamente spirituale, appare questa volta più evidente per una novità autografa che ci viene offerta insieme al materiale visivo: una riconferma del suo temperamento, improntato a tre caratteri mentali storicamente conseguenti. Quello esplorativo che è tipico del nostro primo quinto di secolo, quello filosofico moderno,nato negli anni trenta, e quello parascientifico, che distingue l’attuale insicurezza dell’umanità in cerca della formula di una qualche verità.

Il carattere esplorativo del suo atteggiamento è affine di quello del prossimo Novecento, nell’amore per la ricerca metafisica più in quello della forma.

Infatti, la “rivoluzione culturale” futurista (nata in reazione a una mentalità passivamente contemplativa, vissuta scippando per strada alla natura i suoi piccoli segreti), dopo aver superato i complessi di colpa, riusciva a mettere le mani su vere e proprie fortune, fino ad allora chiuse nei sotterranei blindati della cultura scientifica, come la geometria descrittiva che portò al cubismo o i successi della tecnologia o addirittura il rilancio delle scienza occulte che portarono a tanti altri anticonformismi, oppure ancora la geometria analitica vista da Gabo e Pevsner, ad esempio, negli anni cinquanta. Tutte forme di appropriazione, non sempre legittime, dell’immagine. In Ungheri possiamo individuare un’interpretazione, vedremo poi in che senso, contenutistica.

Quanto al carattere filosofico, essendo egli in polemica sia con l’idealismo sia con il positivismo, la sua posizione è moderna in quanto esistenzialistica. Ma i valori più avanzati della sua arte li troviamo là dove poggiano sulla teoria pure che integra il suo operato. Dove nega, ad esempio, attributi di eternità all’Universo, mediante presupposti matematici. Tre posizioni dunque, ma un unico atteggiamento di fondo che è la ricerca. Una ricca assai diversa da quella tipica dell’”esteta” che parte dall’immagine per arrivare a un’idea. Ungheri nel mondo delle idee ci vive e le immagini da lui create sono invece frutto di idee preconcette. Anzi, delle immagine ha un’opinione tanto rigorosa da sottolinearne il carattere virtuale, per cui è dall’idea che arriva alla forma. A una forma che,in pittura come in scultura, è testimone di un contesto preesistente in lui e non di rado in lui solo.

Lo prova oggi questo suo singolare presentarsi al pubblico con una tesi almeno chiarificatrice del suo concepire la creazione: un modo di “diverso” nel senso che, mentre in genere l’artista moderno ha sfruttato nuove idee particolari per ottenere particolari forme nuove, Ungheri usa forme “vere” concrete per affermare astrazioni universali, anche se ricavate da sue verità intuitive. Questa è interpretazione. È arte, direi.

In questa ricerca vitale, sincera, giovane, egli tiene banco, nel suo studio romano, in un frequentatissimo cenacolo animato da nomi quali lo psicologo Sergio Bernardi. La sua produzione vive dunque su una base preconcettuale che dà forma all’idea. Chi non raccoglie ad esempio il messaggio delle sue composizioni pulsanti, fra le più drammatiche d’oggi?

Questa volta egli ha deciso di premettere al fatto visivo alcune intuizioni, puntualizzandole, frase per frase e fornendo, per ogni concetto, riflessioni soggettive che aprono a meditazioni sui contenuti. Interessante per chi, al di qua o al di là del vallo creativo, si è stancato della forma per la forma.

                                                                                                    1970. FAUSTO CIMARRA

 

Cuori, diaframmi,occhi e poi oggetti luminosi e funzionali: ecco Saverio Ungheri. Ma, fra tutti, gli oggetti-cuore sembrano raccogliere meglio le sue intenzioni. Suggestivi e quasi impressionanti per una sorta di surrealtà mimetica di una realtà inconsciamente avvertita, perfettamente funzionanti nei congegni meccano-luminosi per i quali “respirano”, oggettivati tanto da risultare persino lampade o fondali di ambente, non giungono tuttavia a offrirsi in un distacco ironico; anzi una specie di ansiosa drammaticità sembra insita in essi, fin dalla ideazione e dal progetto, fino alla elaborazione costruttiva: uno spettacolo di mirabolanti invenzioni.

                                                                                         “Il Popolo”, 14 ottobre 1970. SANDRA ORIENTI

                                                                                       .

 

Cuori di plastica collegati a tubi di lavandino, pesci in materiale sintetico che aprono e chiudono ritmicamente le branchie, occhi di plastica e metallo dalle palpebre semoventi. Oggetti: questo il mondo che Saverio Ungheri propone, Ancora una volta, l’immagine oggettuale proposta con intenzioni dissacratorie sino all’ironia, allo sberleffo, alla contaminazione irriverente. Ancora una volta, la civiltà tecnologica presa per il bavero e scaraventata sotto gli occhi dello spettatore, priva della falsità del cellophan e dell’alone scientifico. Ma sino a che punto? Sino a che punto questo nuovo oggettivismo d’estrazione pop ma che poi, andando a ritroso, può collegarsi alla grande matrice del nuovo oggettivismo tedesco, riesce a scalfire la condizione contemporanea dell’uomo, la società che in lui si identifica, l’ambiente nel cui ambito illusioni e realtà perdono sempre più i confini delimitatori per confondersi senza soluzione di continuità e, quindi, possibilità di chiarificazioni?

Ironia attorno alla tecnologia e alla mistica del concetto scientifico! D’accordo. Ma ormai una siffatta posizione è acquisita all’indagine percettiva dei nostri giorni e proprio la scomparsa di quei confini cui accennavamo rende sterile l’azione provocatoria in tal senso, traducendo i risultati nel generico gesto demistificatorio il cui prezzo è già preventivato nel conto economico della società che col gesto vorrebbe contestare.

Allora, di Ungheri non resterà che sottolineare la carica amara che, alla fine, è possibile individuare alla base del suo discorso. La protesta che, in fondo, si traduce in impotente rassegnazione: l’ironia diventa così il riso del clown, sgangherato, forzato, urlato per non concedersi pausa, che significherebbe integrazione, possibilità di acquisizione del sistema e la farsa si tramuterebbe in tragedia: il rischio, poi, che costantemente la ricerca di Ungheri vive.

                                                                                                                               “La Voce Repubblicana”,22-23 ottobre 1970. VITO APULEO

                                                                        

 

[…] Macchine, dunque, non fini a se stesse, bensì ideate e costruite per proporre “un discorso artistico” e, allo stesso tempo, promuovere “una caratterizzazione ambientale”. Insomma, oggetti destinati alle pareti di un determinato ambiente, soffusamente luminosi come le vecchie e care abat-jour delle nostre nonne. Luminosi, s’è detto, ma a forma di pesce, di cuore o di occhio umano, vibrati da palpiti elettrici come un orologio a pendolo o un metronomo che scandisce il flusso del tempo.

Oggetti che avverti germinati sul filo di un dadaismo estremamente cerebrale, composti da una miriade di “objets trouvés”, che trovano la loro migliore suggestione nella carica di un surrealismo bene instaurato tra l’ironico e il patetico. Vada a vedere il nostro lettore il cuore macroscopico elaborato da Ungheri in gomma sintetica che batte come un cuore vero: certo piacerebbe a Barnard che del cuore umano ha fatto un oggetto da manipolare al pari di un giocattolo meccanico. Ma il cuore costruito da Ungheri con amara ironia, tutto sommato, rappresenta il simbolo della dissacrazione violenta e ireversibile operata dalla scienza dentro i confini ancora misteriosi della vita umana.

                                                                                                                                                  “Avvenire”, 13 ottobre 1970. CARLO GIACOMOZZI

                                                                                          

 

Alla Galleria Ciak il calabrese Saverio Ungheri espone le sue macchine cinetiche, polemicamente aggressive nei confronti dell’uso comune e quotidiano degli oggetti. L’espressione di Ungheri rientra nella cosidetta arte oggettuale, oltreché cinetica, e le sue opere non sono più classificabili né come sculture né come pitture. Ciò che sembra distinguere l’Ungheri dalle espressioni consimili è una certa ironia violenta e l’uso di colori sgargianti, che si inseriscono come elemento paradossale nella monotonia dell’arte programmata nei suoi effetti meccanici.

                                                                                    1970. SANDRA GIANNATTASIO

 

 

Nel vasto panorama dell’arte oggettuale, Saverio Ungheri occupa un posto del tutto particolare, solitario. Le sue inquietanti invenzioni (basti qui ricordare il gonfio cuore che pulsa elettricamente in un reticolo di arterie di plastica) nelle quali sono fuse e confuse esperienze surreali, pop e cinetiche,hanno infatti il sapore e il limite di una ricerca un po’ maniacale, sino quasi ai confini dell’ Art Brut. Il che mi pare non pregiudichi la funzione polemica ed eversiva che l’artista affida a queste sue singolari invenzioni e anzi vi aggiunga una caparbia nota di necessità esistenziale.

                                                                                                            “Momento Sera”, 31 ottobre 1970. LORENZA TRUCCHI

                                                                                     

 

Per molto tempo si  inteso omologare un programma oggettuale a una fruizione consolatoria: la discriminazione del design e dell’oggetto utile come indice di status e sempre pronto a coglierne le implicazioni utilitarie e spettacolari. L’operazione è stata possibile grazie al facile sfruttamento matematico e scientifico con conniventi ottundimenti di produttori e fruitori. Saverio Ungheri s’inserisce in questo contesto con impertinenza eversiva deducendo tutto uno strumentario luminoso e sonoro, un cinetismo mimetico carico d’ironia nella ricomposizione di un’iconografia grottesca e di variabile riferimento. Infatti, gli oggetti vivono, pulsano, si dimensionano nello spazio con una loro intrinseca qualità e diciamo una purezza e trasparenza materica. Ma è nell’impatto con l’altro, il riguardante, in taluni casi anche l’auscultante delle pulsazioni cardiache, del traspirare branchiale dei pesci, che l’oggetto assume una sua definizione allarmante.

Il cuore come frammento, come oggetto, come elemento sottomesso alla sperimentofagia si rivela in tutta la dimensione alienata alla riduzione utilitaria e, pertanto, non sono incongrui i ganci cui è appeso che ci ricordano più la consistenza materiale dei vitelli squartati che non la simbologia dell’Agnus Dei qui tollis peccata mundi.

Ungheri non dubita nelle possibilità di una salvezza che ritrova nella espansività liberatoria del grande cuore bianco percorso da un flusso arterioso che l’intermittenza luminosa ironizza. Ed è appunto per questa via carica di humor e di disincantata letizia che Ungheri, con tutto il cuore, è dentrol’arte moderna.

                                                                                                          “Il Margutta”, novembre 1970. LUCIANO MARZIANO

                                                                                      

 

L’arte creativa del giovane artista calabrese Saverio Ungheri, espressa sin al principio in una forma originale, dimostra chiaramente la sua concezione stilistica e personale. La sua ispirazione, che in alcune opere sapeva anche di lirismo, si realizzava nei paesaggi e nelle composizioni con colori di una calda tonalità, dove trasparenza e luce, senso del colore e dello spazio si intrecciavano e formavano arabeschi condotti sul filo di un estro gioioso.

Arte ce si rivelava più sentita nelle tele dove riproduceva le meravigliose terre calabre, che già di per se stesse costituiscono eterna meditazione, dove i mari sono profondi, i cieli altissimi e i personaggi imbevuti di sole.

Per molto tempo infatti, Ungheri, non dimentico della sua terra, ha dipinto attraverso i ricordi immagini vive, sentite e spontanee, poi si è seriamente applicato allo studio dell’arte classica e pian piano le sue tele si sono arricchite di visioni spirituali e di personaggi sacri.

A questo punto, Ungheri si definisce un mistico moderno dell’arte contemporanea e, dando prova di grande maturità artistica, affronta temi di non facile esecuzione, quali le sue ormai famose composizioni a carattere religioso: il Calvario, la Deposizione e i S.S. Pietro e Paolo, che figurano nella chiesa di Taurianova, dove la tragicità del momento è avvalorata dal colore, che questa volta incide più sul sentimento che sul soggetto riprodotto.

In queste opere sono evidentissime le capacitò dell’artista, quali la robustezza del disegno, la sensibilità per il colore e la forza di espressione nel fare con pochi tratti il vero carattere ai personaggi.

Ungheri è ormai un nome che continua a percorrere la strada verso traguardi luminosi di nuove conquiste, i suoi lavori conosciuti in tutto i mondo, ma tutto questo a lui non basta: ha bisogno di andare avanti, di dire sempre cose nuove con parole nuove.

Attualmente, dopo un lungo periodo di serio e impegnato lavoro, ci mostra la sua ultima produzione di quadri. Osservandoli, a noi sembra che egli abbia trovato veramente un nuovo linguaggio, imprevisto e fecondo.

Tuttele opere sno stilisticamente diverse dalle precedenti, alcune con riglessi astratti. Il colore sulle tele si distende vivo, quasi abbagliante, e le figure, realizzate con linee sicure e taglienti, hanno una compostezza raccolta, che dà un senso  di intimità e di mistero. A questo poeta e filosofo della pittura moderna, così lo ha definito il critico d’arte Licurgo, noi facciamo gli auguri sinceri di una sempre luminosa ascesa.

1970. GABRIELLA POMPEI

 

 

Saverio Ungheri, nella mostra personale alla Galleria Ciak, ci trasporta nella fucina surrealista d’un immaginario mago del 2000.

Cuori che pulsano, occhi che roteano emettendo luci diverse, quasi volessero esprimere sensazioni di piacere o di dolore, di amore o di odio.

Qualche decina di anni addietro fu scoperto in Brasile – se non andiamo errati per la località – uno scarabeo, esemplare unico, che dal suo sistema nervoso emana una luce.

Fin qui, niente di strano; la nostra lucciola nazionale (luciola italica) produce una luce fosforescente da organi localizzati negli ultimi segmenti addominali.

L’interesse che il piccolo coleottero suscitò allora fra gli scienziati nacque dalla constatazione che lo scarabeo emana luci diverse, a seconda che sia irritato o calmo, affamato o sazio, e via dicendo.

Tale manifestazione di linguaggio espresso con raggi di luce , è riaffiorata alla coscienza visitando la mostra Ungheri. Siamo rimasti colpiti dalle grani possibilità di quest’arte oggettuale che accoppia fantasia artistica e capacitò tecniche, realizzavili avvalendosi delle inesauribili variazioni coloristiche ottenute con l’ausilio di codesti ingegnosi apparecchi che, ripetiamo, offrono allo stato opaco composizioni plastiche di buon gusto e, in funzione illuminante, suggestive visioni surreali.

1970. PAN

 

Un mattino di Novembre ai margini della città, un uomo e un ragazzo (padre e figlio) si aggirano tra enormi mucchi di rottami di ferro di ogni genere. Carcasse di automobili, ruote, attrezzi rotti, pnetole bucate, pezzi di rotaie, molloni, e tante altre cose, le più varie e impensate, costituiscono la sterminata catasta di rottami che tentacoli di enormi macchine afferrano, stritolano e trasformano in geometriche balle di lamiere pronte per la fusione.

L’uomo indica al ragazzo i mucchi di rottami e dice che in questo luogo egli cerca le impressioni e il materiale che gli permetteranno di realizzare opere fantasiosamente curiose, divertenti, proiettate nel futuro.

L’uomo è un noto artista. Saverio Ungheri, è stato professore presso l’Accademia di Belle Arti e il Liceo artistico, ha tenuto numerose mostre personali a Roma e a Milano. Ungheri realizza le sue opere con i materiali più umili, con gli oggetti di più largo consumo, che egli trasforma in simboli della civiltà moderna.

La rubrica Immagini dal mondo, curata da Agostino Ghilardi, dedica questa settimana un servizio a questo interessante artista. Il regista Ciotti lo ha visitato nel suo studio, dove egli trascorre lunghe ore tra pannelli lucenti, enormi ruote, raggi, cuori pulsanti, missili, lem, macchinari lunari. Gruppi di giovanissimi allievi seguono con devota attenzione e divertito stupore la creazione di quegli “oggetti” così curiosi e affascinanti.

“Radio Corriere TV”, 1970

 

 

Anche  l’uomo della strada, incontrando Saverio Ungheri o le sue opere, percepisce immediatamente che questo artista “sente” tutto l’universo e ogni oggetto, anche il più apparentemente inerte, come una realtà che vibra, pulsa, palpita. Tutto il mondo parla e ascolta. È un immenso gioco di energia. Ogni essere, pur individuo e diverso, è vitalmente collegato con tutto l’esistente in un continuo flusso dinamico. Di qui, l’entusiasmo per il cosmo di Saverio Ungheri, il suo robusto senso di una procreazione permanente, di una maternità generativa che è delitto conculcare. E di qui, ancora, la sua appassionata sperimentazione di nuovi moduli artistici: il recupero di materiali poveri e quotidiani, inseriti in opere “pulsanti”, che si muovono, si illuminano, emettono suoni. Oltre il pennello, il bulino, lo scalpello, l’artista è continuamente costretto alla soluzione generale di problemi tecnici, acustici, meccanici. Le sue abilità creative devono ampliarsi per poter esprimere più pienamente questa sensazione di pan-enérgheia, che tutto è energia.

Ma insieme, e proprio per la stessa ragione, si avverte nelle sue opere il senso dell’effimero. Il movimento programmato può essere facilmente interrotto. Basta premere un pulsante.

Tutto il mondo sensorio, infatti, non è che apparenza o immagini virtuali programmate. Ogni essere vivente è un nucleo di pura energia che riceve, attraverso le capacità sensorie di cui è dotato, il programma espresso in simboli. Sono queste capacità sensorie, che quasi come trasformatore di corrente, traducono i simboli del programma in corrispondenti immagini dell’universo e le proiettano all’unisono con gli altri nuclei viventi su un unico schermo sferico che è lo spazio, inventando, per necessità di progressione, il tempo.

Tutto questo, Saverio Ungheri ce lo dice con le sue opere. È un’elaborazione teorica e poetica, sono intuizioni vivacemente stimolanti di questa sua originale e interessante ipotesi sull’essere come pan-enérgheia, la cui attualità è superfluo sottolineare. È infatti di tutta evidenza quanto questa visione artista artistica corrispondenza in maniera suggestiva alle più recenti teorie fisiche sull’atomo, il nucleo, la materia e l’antimateria, l’equivalenza tra massa ed energia.

Prefazione in Saverio Ungheri, Propostadi un manifesto per un progetto d’arte metapsichica, 1970. ARTURO DALLA VEDOVA

 

 

 

I grandi capelli gonfi e neri, i grandi baffi impeciati e grossi, il viso quadro e cotto dal sole da pirata saraceno, Saverio Ungheri a un’aria spavalda da razziatore e certo nelle sue vene deve scorrere sangue barbaresco, sangue di turchi che guai a noi quando sbarcavano alle marine.

Nato a Rizziconi, Ungheri vive da tempo a Roma, ma l’estate puntualmente egli deve viverla in Calabria, dove gli piace far conoscere qualcosa di suo e in particolare le sue esperienze in campo artistico.

Ha fatto un sacco d’esperienze, Ungheri, da quando giostra con pennelli e altre cose, ha inventato un movimento artistico, l’astralismo, è anzi tra i caposcuola degli astralisti, e a Palmi appunto, due anni fa, ha tenuto alla Pro Loco una sua personale di arte astrali sta, poi ripetuta a Roma alla Ciak.

C’erano sculture lievemente agghiaccianti, cuori che pulsavano, pupille che si dilatavano, stelle che ruotavano: vi s’accendevano luci, vi si udivano rumori, ma c’era tuttavia qualcosa che andava in profondo, una ricerca cocciuta, il segno di una vitalità e di un’intelligenza oltre la norma.

Ungheri a Roma ha, come si dice, spopolato, e tutta la critica lo ha seguito con attenzione, scossa dalla novità in sintonia – per altro – coi tempi.

S’è detto “antico figurativo”, ma fino a un certo punto: intanto c’è un’idea nuova come al solito, quella che dà la mazzata in testa gli incauti e magari fa dire: peccato!

Peccato, perché Ungheri stavolta ha visto il mondo dalle due mostre, che egli chiama temporali, e ne ha segnato i perentori confini coi telai precisi che bloccano la visione e la fanno accessibile all’uomo.

Ma al di là da questi segni, c’è la natura come forse fu nell’Eden, le valli folte d’acque, le montagne boscose, le marine intatte – luoghi calati in un’aura segreta e non violata, pieni di letizia, ameni, dove ti pare di udire il canto degli uccelli e il mormorio dei fiori e delle acque.

Visioni irreali e tuttavia reali, come viste in un sogno cui fanno da pendant certe riproduzioni di capolavori scomposte in un labile gioco di segmenti, dove il colore c’è e pare di no, vaghe e stupende, magie comunque degne del suo nero sangue di predone musulmano.

Conversazione per Radio Cosenza, in onda nel “Corriere della Calabria”, 1971. DOMENICO ZAPPONE

 

 

L’Ungheri delle sezioni macrobiologiche “viventi” è ben noto per una forma comunicativa, mai gratuitamente poetica, sempre rigorosamente allusiva e non di rado pervasa si sottile umorismo, pregio che molti artisti dovrebbero acquisire per evitare la retorica. L’Ungheri della pittura sarà presto conosciuto, anche a Roma, in una fase evolutissima della sua meditazione su problema della Natura, arricchita di nuova oratoria.

Oggi, all’obelisco, abbiamo ascoltato l’interludio creativo dei due Ungheri, partecipi di entrambe le sensibilità, in un momento di eccezionali importanza. Si tratta di una personalissima interpretazione del matriarcato incipiente, dell’emancipazione della femmina, nel richiamo evidente e suggestivo all’ape regina. Preso come riferimento allegorico, l’oggetto è impeccabile. Guardato come fatto figurativo è quasi allucinante. Lo sviluppo del tema, su nove metri per tre, è biologicamente articolato nei tre settori: testa (sensi), corpo (meccanica), coda (sesso), pervasi equilibratamente da una misteriosa pulsatilità, caratteristica dell’insetto e, in questa scala, del mostro. Visto attraverso la lente della sua ricreazione di arte pura, Ungheri ci mette in uno stato emotivo ideale per accogliere il fatto come sintesi della più complessa ma equilibrata organizzazione compositiva. Appunto, come si comporta la Natura. Sono coinvolti nel tema la materia tattile (superfici di plastica-spugna), in aritmiche contrazioni ed espansioni sconcertanti, e un sordo gioco di ronzii ossessivi. Al di sopra di tutto questo e per merito di tutto questo, il vero protagonista è il segreto che nasconde il divenire della natura. Ungheri, in quest’opera, ha scritto un saggio sulla composizione, in cui i caratteri dell’estetica visiva si compenetrano in una dinamica e in una poetica in rapporti di variazioni quantitative che sono caratteri avanzati della estetica musicale contemporanea.

                                                                                                                          “Scena Illustrata”, febbraio 1973. FAUSTO CIMARA

                                                                                

 

[…] Questi oggetti non hanno più un valore “simbolico”, ma un valore concreto, reale, veramente personificato e materializzato. Quando questi elementi-oggetto vengono a trovarsi in una situazione di staticità (per la mancanza di energia elettrica che alimenta il loro meccanismo), assumono un sempre maggiore valore e contenutistico e scultoreo (raccolti in “questi” recipienti di plexiglas), riuscendo, se pur privi di una forza estetico-centripeta, a proiettarsi in una dimensione non spaziale quanto mentale, cerebrale, circoscritti da un assieme di associazioni e collegamenti psicomentali che li legano inesorabilmente ai fatti reali e no. Ungheri ci propone quindi un “nuovo” modo di intendere certi rapporti tra elemento-vivo e elemento-vitale. Ci propone elementi-oggetto anatomici che non sono più “oggetto” ma che hanno ormai raggiunto e assunto il valore di “soggetto”.

Ci propone di scavare una realtà nella quale troppo poco si era scavato, una realtà nella quale troppo poco si era scavato, una realtà ce apre “nuovi” orizzonti, nuove prospettive, oltre che artistiche sociopolitiche, per una società che tende sempre più a condizionare sin dal “ momento gestuale”, facendosi forza su certe “prese” di coscienza consumistica, in una società che cammina sul falso binario del neocapitalismo e che si va sempre più industrializzando.

                                                                                             “Il Giornale di Calabria”, 24 marzo 1973. GIORGIO FASAN

                                                                          

 

Forse pochi, o nessuno, dei profeti in esercizio avrebbero mai potuto presagire che la scultura, a partire, mettiamo da Mirone, sarebbe arrivata a questa scultura di Ungheri, a questo campo di presentazioni: serre di cicatrici, ulcere e aperture nelle più grandi oasi anatomiche, vergate a labirinti lividi; contrazioni di diaframmi, comprensioni vascolari, fruscii di colesteroli, elasticità propulsioni impulsioni espulsioni, camere cellulari immensificate, tessuti in sospensione, in suspense; ossigenazioni tonali, sonore. Un minotauro biologizzante che opera allo sbaraglio, e la dissezione si integra in nucleo autonomo a irradiazione spasmodiante, per evocare la paura, il contatto organico, l’essenza, la successione; come evocare capillari labirinti di natura immaginosa, ipostasi di vertigine cieca, accecata nel travaglio metabolico del lessico anatomico; come ricercare conseguenze magiche, rituali, sacrificali su un theatrum fisiologi sta, e come portare sulla scena il dominio inevitabile, un quadro disseminato delle superiori discrezioni ritmiche della vita e della morte; estirpare una ossigenazione simbolica dell’enigma cellulare, e tracciarne i diagrammi di una dinamica tra ironica e fittizia (fictio); e trascinare l’inchiesta labirintica nel seno informe del biologico militante, scrivere i piani di caverne-vascello dove il sangue immaginario scola da fonti quasi mitiche. Una coerenza operativa che crea un impulso di esagitazione mitico-mimetica, condotta al punto non sperato di alte oscillazioni arcaico-future, idonee alla concrezione di superiori angosce, di astratti deliri: impulsiva batte quell’area una acrobatica armonia (realmente attuata) del respiro e del singulto, del sibilo e della pulsazione, del fremito e dell’orgasmo, e, insieme sempre, l’esterrefazione sussurata delle tossine alla deriva delle stagioni. Si rappresenta così una storia di gorghi e ingorghi sulla strada liberatoria, fra ostacoli svaniti, verso una specie che chiamiamo le village d’etre: con la geografia emozionale della giungla molecolare (il locus, il locus communis del timore umano, del timore incarnato, dell’incarnazione) con le prospettive sussultorie dell’ eventuarsi, del vitalistico, perifrasi e stazioni della filogenesi, sostenute anche da certa impertinenza: in riflessi incandescenti, in simulazioni stimolate, inopinate suggestioni pulsanti e respirose, dominio della fertilità:occhio, vulva, cuore; e i sacramenti della notte cellulare posti in collisioni, illusione; in collisione con le frontiere dei territori simbolici e con il senso irreversibile della morte fatta immagine vivente di se medesima, isteria degli eventi concettivi e generativi. Prendere questo vaso ululante che è l’organismo zoom orfico (e l’estasi della zanzara, e l’erotismo del’ape regina con i misteriosi bramiti, e la mostruosa prosopopea della mantide; in traiettorie tra l’antica valle d’amore, che è il cuore, e il colle senza fine dell’ombra pelvica), prendere un organismo, dunque, e cancellare i terremoti e le intemperie, per salvarne l’unica, l’ultima sostanza, che è il meccanismo, la superficie motoria, i suoi recitativi, i suoi lampaneggi, i guizzi di interminabili brevi rattrappiti disastri: queste le emozioni della “scultura” di Ungheri, dellesue superfici e protuberanze motorie, da cui fuoriescono luminescenze, intermittenze, cadenze captate alle aree del deperimento vitale, alla densità degli squilibri e delle allegorie, a un sistema anamorfico sensitivo e di livello splendidamente, musicalmente ipotetico: il meccanismo della vita che tende a rapire se stesso e a fuggire da se stesso, a debordare per attestarsi nell’alveolo degli emblemi vitali, cioè nella grande sospensione (suspense,insisto) dinamica: sistole e diastole come registri ambigui dell’humour, ritmo semaforico della noche senza nessuna fine, nessuna fine. Allora, diciamo, in che spazio siedono, a quale spazio si abbracciano, con che spazio si coniugano le sculture palpitanti? Tutto lo spazio sarà identificazione e verifica del corpus illimite, di cui il corpo umano, che dovremmo avere la gioia di guardare con infinito disgusto, è una misura meschina, un impatto; e con cui il corpo umano costruisce trattiene e filtra l’area di moto e di immobilità. Questo il senso che avrà l’isolamento degli organi vitali in spazio illimite: organi di corpi assenti che soffrono di essere, che vacillano, e il cui ritmo e le cui incandescenze dicono: bisogna assolutamente perire! Per cui lo spazio ritratto e l’inutile filigrana del corpo ibrido e gli organi motorii, pulsanti e vocali, del corpo ibrido evocano la natura nera, l’humor come trasgressione e sconfitta, diciamo qui, per la prima volta, un humour rouge: del quale testimoniano l’essenza-assenza sacrilega, come trasmodante, trasfigurante, trasfinente. Diciamo dunque “scultura” una comparizione sufficiente radicale per raffigurare il corpo (corpus, quindi) come forma di una divinità , o del dio non ancora nato, schiavo integrale del caos fecondante: nicchie del palpito informe e omniverso, cavo della dimensione fluida (non eraclitea), ragni di battimenti imperativi nel decrepito edificio del corpus , inestricabile nodo-ricordo del caos in flessione.

                                                                                                               1973. EMILIO VILLA

 

 

Si è chiusa con vivo successo all’Obelisco la surrealistica, allarmante e affascinante mostra delle sculture di Saverio Ungheri. Sono in gran parte sculture anatomiche: cuori,occhi,cellule,organi vari,ecc. Altre raffigurano insetti:un’ape regina, una mantide religiosa, una coccinella. Caratteristica comune:sono tutte di dimensioni colossali, quasi monumentali. Ungheri le ha realizzate in speciali e resistentissimi materiali plastici, ricorrendo all’elettronica e a ingegnosi meccanismi per dare a queste sculture movimento, luci e suoni. Basta girare un piccolo interruttore per vedere queste gigantesche anatomie e questi insetti alti due metri animarsi, fremere, lampeggiare, per sentirli ansare e battere. La macchina-cuore è tra le più impressionanti: pulsa immensa, immensa, sulla parete e il suo battito aggredisce, ossessiona. A un certo punto, lo si sente talmente sincronizzato con proprio che si perde di vista la finzione e non si osa più girare l’interruttore per farlo cessare. Anche davanti ai ciclopici occhi non ci sente affatto tranquilli, e dopo un po’ ci si sottrae volentieri a quegli sguardi-voragine.

                                                                                                “Il Giornale d’Italia”, 24-25 aprile 1973. BRUNO MORINI

                                                                              

 

 

Conosco Saverio Ungheri da sempre direi, poiché la sua presenza a Roma, tra gli artisti, ha origini di tempo quasi identiche alle mie. Ci siamo abbeverati alla bellezza insieme, unitamente a un folto gruppo di scrittori, poeti, scultori, belle donne – cercato in questa Roma, una ragione di affetto e di amore verso di noi che venivamo dalla nostra Calabria inebriati, incantati (come il famoso pastore che ne nostri Presepi natalizi noi chiamiamo “u’maravigghiato da stida”) di tutte le bellezze che Roma ci offriva, ed ognuno di noi, per la sua via, è riuscito a trovare quello che cercava! Saverio Ungheri, che era pittore, seguì, con l’animo che gli è proprio e con l’attenzione che gli è congeniale, i Maestri che, a cavallo tra il 1935 e l’immediato dopoguerra, vivevano e lavoravano a Roma; seppe scegliere quelli che erano più vicini alla sua concezione d’arte e si incamminò sicuro verso il suo destino.

Ma questa Roma, che subito dopo la guerra divenne una cosmopoli caotica e accesa di tanti umori, ci disperse: cosicché, dopo alcuni anni, seppi da un amico comune che Ungheri aveva tratto in moglie (come si dice in linguaggio dell’Ottocento!) la sorella di un nostro comune amico, quella Teresa che conoscevo da ragazzina, sempre sorridente e allegra… sorella, dicevo, di colui che si conquistò la nomea di poeta maledetto per le cento e cento cose che, giunto a Roma, si era messo a fare e che conquistò anche l’affetto fraterno di Virgilio Lilli e di Giovanni Artieri, i quali lo introdussero nel giornalismo, con quel successo che tutti sappiamo; quell’amico mio è Enzo Nasso. Ma, voi mi direte, che c’entra questo discorso per parlare di Saverio Ungheri? E invece io vi rispondo che c’entra poiché è in questo nostro ambiente che Ungheri ha trovato il terreno per intendere meglio la sua arte, per trovare in sé il sentimento e i mezzi necessari per diventare quell’Artista che egli oggi è.

Dimenticavo di dirvi che nemmeno allora io rividi Ungheri.

Il mio incontro con lui, o meglio con la sua arte, avvenne in un modo straordinario, come ora vi dirò. Passavo un giorno, ormai lontano, dinanzi alla vetrina della Galleria romana L’Obelisco, di Gasparo Dal Corso, e restai senza fiato… nella vetrina c’era un cuore di uomo… sì, un cuore di uomo, un po’ più grande del naturale, sembrava fatto di carne, era vivo e pulsava drammaticamente, uniformante, dinanzi agli occhi miei, legato ancora alle arterie, alle vene, fatte di tubicini di acciaio interrotti da rubinetti!!!

Dentro alla Galleria c’era un’imponente mostra di Saverio Ungheri e dei suoi “oggetti animati”.

Capii, allora, che Ungheri aveva inventato un’arte drammatica, un’arte che aveva saputo trarre fuori la Bellezza, la divinità superba del nostro corpo, elevando, prima ancora che gli scienziati vedessero veramente i nostri organi dal di dentro, la materia ad arte, mostrando come si possa cercare – novelli Capanei – di carpire al Creatore la sua arte, ma con il cuore dell’Uomo che crede, che sa, che ha fiducia illimitata nelle solenni funzioni di Dio sull’uomo, sul mondo.

Poi, una presa di contatto con il suo studio-cenacolo ove si radunano ogni martedì nomi scelti delle lettere, delle arti, delle scienze, a discutere dei problemi che affannano l’uomo di oggi, mi fece conoscere veramente l’animo di Saverio Ungheri, in modo tale che oggi ho ritrovato, posso affermare, l’Ungheri, di trenta e più anni fa, con la sua infinita volontà di vivere, di lavorare, di credere, di creare, per dare alle sue affannate geniali ricerche un modello di Bellezza.

1976. SANDRO PAPARATTI

 

 

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